Piazza Rossi racconta:
"Il monaco"

 

Sono cresciuto sotto la protezione del Vescovo Ilario. Ad essere sincero, io lo conoscevo già quando non era ancora vescovo e nemmeno battezzato cristiano: vivevo con la sua famiglia, persone agiate, amanti della cultura in ogni sua forma.

Ilario prese il battesimo a 35 anni e seguì un duro cammino di ricerca della verità, che lo condusse, con fatica e sacrificio, a riconoscere il Dio Creatore e il Dio Incarnato, diventando paladino dell’ortodossia nicena.

Era una persona meravigliosa, carismatica, che riusciva a coniugare fortezza nella fede ed estrema dolcezza e mansuetudine nel rapporto interpersonale. Ilario non ha mai “remato contro”, ma ha sempre scelto l’accoglienza e la discussione costruttiva. Mi trattava come un figlio…

Un giorno, in una città della Gallia, incontrò dei soldati di guarnigione: fra questi c’era un uomo di pochi anni più giovane di lui. Ci fu subito intesa fra i due, ed era strano, a mio avviso, che un vescovo fosse così in accordo con un militare. Ma quel soldato era Martino, già battezzato, addirittura prima di Ilario, e come lui alla ricerca della sua fede più vera.

A quei tempi però l’Imperatore Costanzo parteggiava per l’Arianesimo, il credo che rifiutava la natura divina del Cristo. E si sa che i giochi dei potenti sono come macine che schiacciano i subordinati. Vivevamo come in bilico su una corda tesa tra le due rive di un fiume impetuoso, sempre pronti a fuggire. O morire.

Martino aveva ottenuto il congedo ed era venuto un po’ da noi a Pictavium. Ilario ormai conosceva il valore di quell’uomo di poche parole, che con un solo tocco ti faceva capire la fratellanza: la sua mano sulla spalla era conforto e linimento alle ferite dell’anima. Il mio vescovo avrebbe voluto fare di Martino un diacono della sua Chiesa, ma l’Altissimo aveva altri piani per tutti noi: in capo a poco Ilario venne esiliato in Frigia.

Io no. Non ero più con lui, perché lui stesso mi aveva mandato in Pannonia con Martino, pregandomi di esserne fratello e vegliare sulla sua vita.

Il mio percorso con Martino è stato un percorso di silenzi e di grande luce. Non so esprimere con parole l’immensa emozione di quando convertì al Cristianesimo la madre: per lui fu la più grande grazia ricevuta, e gli diede la forza di resistere alle persecuzioni che dovemmo subire da parte dei vescovi ariani dell’Illirico, le ingiurie, le minacce, le percosse… Martino venne fustigato in pubblico. Decidemmo di lasciare il paese. La sera prima di partire, sulla riva di un fiume, mentre gli pulivo le profonde ferite, i segni della frusta sulla schiena, mi disse le parole di Cristo sulla croce: “Dobbiamo perdonarli perché non sanno quello che fanno”.

Raggiunta Mediolanum, ci siamo sistemati in piccole celle isolate, a formare un minuscolo eremitaggio, dove poter pregare, espiare ed aiutare chiunque avesse avuto bisogno. Ma il Vescovo Ariano Aussenzio ci scacciò da lì. Avevo un grande vuoto nel cuore, che presto Martino colmò dicendomi semplicemente: “Fratello, andiamo dove Dio ci guida e ci chiama”.

Così i nostri passi stanchi ci hanno portati verso l’ampio respiro della marina: un lungo viaggio, al termine del quale ci accolse un’alba piena di tenui colori, col disco del sole che si innalzava dalle acque calme e limpide, iniziando la sua corsa nel cielo, come un inno di lode alla gloria del Signore. E in mezzo a quell’immensa distesa d’acqua, c’era un’isola, piccola come un seme. “Là andremo, fratello mio: là cercheremo noi stessi, rafforzeremo la nostra fede e seguiremo le indicazioni che Dio vorrà darci”.

Scendemmo nella verdeggiante piana di Albenga: dovevamo trovare il modo per raggiungere l’isola. Martino sapeva che lì c’era una comunità cristiana forte e ricca, che seguiva la fede vera e antica del Dio uno e trino. Fummo accolti come in famiglia. Sapevamo dove andare: l’Isola Gallinaria sarebbe stata per qualche tempo il nostro rifugio, l’immenso dono di Dio per ritrovare equilibrio e serenità.

La gente di Albenga, asciutta nelle emozioni e apparentemente dura, abituata a rubare alla poca terra il sostentamento e a spingersi in mare per migliorare la propria vita, ci proteggeva e, senza dirlo, ci amava. Era uno scambio così bello, così umano: preghiera e amore, e piccoli gesti, grandi come l’universo. C’era un triangolo perfetto, come perfetta è la Trinità: l’isola, il porto, il monte, uniti da un filo sottile e prezioso…

Ma dopo qualche tempo partimmo, perché un nuovo tempo era venuto…

Non ho più lasciato Martino, mio fratello e guida, nemmeno al ritorno di Ilario dall’esilio. La strada era da percorrere in due, ormai lo sapevamo: apprezzavo i suoi silenzi così densi di significato, che col tempo avevo imparato a comprendere. E lui accettava la mia impulsività…

Martino era un asceta, un solitario soldato di Cristo, che nella sua solitudine aveva grandi e forti braccia, e le stendeva idealmente per abbracciare, e aiutare, il mondo intero.

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